Rubrica “Lunedì al femminile”: IL MITO DELLA VERGINITÀ FEMMINILE

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Eccoci giunte al quindicesimo appuntamento della rubrica “Lunedì al femminile”, che esce ogni primo lunedì del mese (in fondo trovi i link per accedere agli articoli precedenti). Il mese scorso abbiamo iniziato a parlare dell’imene e di quanto in realtà non possa essere considerato il garante anatomico della verginità, e chissà se questa falsa credenza sia dovuta o quanto meno influenzata dal mito del dio greco Imene, conosciuto anche come Imeneo. Non si sa precisamente se l’imene deve il suo nome al dio greco o se è il contrario, ma è quanto meno curioso il fatto che Imeneo fosse il dio dei matrimoni e che la rottura dell’imene sia stata considerata la prova dell’essersi conservate vergini fino al matrimonio. Come accade spesso nella mitologia greca, esistono diverse versioni del mito di Imeneo; una versione sostiene che fosse figlio di Apollo e di una delle sue muse, un’altra ritiene che fosse figlio di Dioniso e Afrodite, e una terza versione dice che si trattava di un mortale di umili origini che si innamorò della figlia di un potente signore di Atene. Comunque, in tutte le versioni si racconta fosse veramente bello, con la testa ricoperta da riccioli d’oro e un fisico androgino che faceva innamorare tutti, uomini e donne. Il mito racconta che Imeneo fosse condannato a un amore impossibile, ma che i suoi sentimenti erano così forti che seguiva la ragazza ovunque, e la seguì anche durante una traversata in cui andava ad Eleusi per offrire un sacrificio a Demetra, camuffandosi da donna. Durante il viaggio, la nave su cui salparono venne intercettata da alcuni pirati che presero il comando dell’imbarcazione e virarono verso un luogo deserto sulla costa, dove decisero di riposarsi un po’. A quel punto Imeneo mostrò la sua identità alle ragazze ed elaborò un piano per portarle in salvo. Durante l’impresa, la fanciulla che amava si innamorò di lui, e al termine dell’impresa lui tornò ad Atene annunciando che avrebbe liberato le donne solo se gli avessero concesso in matrimonio la donna che amava. La sua richiesta venne accolta e iniziarono i preparativi per il matrimonio. Ci sono varie versioni, ed in una di esse si narra che al termine della cerimonia Imeneo cadde improvvisamente a terra, morto: il giovane defunto e la fanciulla iniziarono ad emettere un profondo lamento, pregando gli dei affinché non li privassero della loro felicità. Uno degli invitati al matrimonio, il dio Asclepio, commosso per il pianto degli innamorati, intervenne facendo resuscitare Imeneo, e da allora ad Imeneo fu affidato il compito di partecipare a tutti i matrimoni, in quanto la sua assenza era un augurio di sfortuna per le coppie di sposi. Così camminava alla testa di ogni corteo nuziale coronato di rose, avvolto in un velo e con in mano una fiaccola, mentre i greci lo invocavano con un canto di gioia – “Imeneo, Imene! O Imene, Imeneo!”, in segno di buon auspicio per la nuova unione. Che sia proprio da questa immagine di Imeneo avvolto in un velo che derivi l’idea dell’imene intatto prima del matrimonio?! E poi il suo incedere con la testa coronata di rose mi riporta alla proposta che già nel 2009 fece l’associazione nazionale svedese per l’educazione sessuale RFSU (Riksförbundet för sexuell upplysning) di abbandonare la parola “imene” a favore di “corona vaginale”, perché il termine “imene” coincide ormai con un concetto infondato che lo considera come una specie di barriera alla penetrazione. Tale proposta fu accolta dallo Språkrådet, il consiglio svedese per la salvaguardia e lo studio della lingua, e la parola “corona vaginale” divenne ufficialmente parte della lingua svedese, in quanto aiuta a demolire una serie di miti e significati simbolici legati a questa parte del corpo e alla verginità. E un’azione linguistica simile è stata fatta anche in Norvegia nel 2017, quando il più importante dizionario del paese, dopo varie discussioni con medici, ostetriche e femministe, decise di sostituire la parola “imene” con “ghirlanda vaginale”. Questi rimandi ai fiori si trovano anche nel linguaggio della medicina: quando parla della donna usa la metafora del fiore innocente, e la perdita della sua verginità viene chiamata “deflorazione” a cui poi via via è stata associata la rottura della corona vaginale e il conseguente sanguinamento. Ma siamo proprio sicure di questo?! Come avevo già spiegato dettagliatamente il mese scorso, non tutte le corone vaginali sono uguali e non tutte sono integre dalla nascita, e poi alcune sono così elastiche da non rompersi nemmeno dopo ripetuti rapporti sessuali. Quindi, anche se tradizionalmente la corona vaginale è stata considerata una specie di sigillo di castità che dovrebbe lacerarsi e sanguinare al primo rapporto sessuale, ora sappiamo che non per forza ci dev’essere il sanguinamento, e nemmeno il dolore! Dato che la corona vaginale non è una membrana che ottura la vagina, non è nemmeno qualcosa che si può rompere la prima volta che la vagina viene penetrata; anche se l’espressione inglese “pop her cherry” (letteralmente “stappa la sua ciliegina”), porta a credere che una donna vergine sia come una bottiglia di champagne cui si bisogna far saltare il tappo. Quando si prova a inserire qualcosa in vagina si possono produrre delle lacerazioni del tessuto, ma la membrana, per la sua forma o per l’elevata elasticità, può non portarne alcuna traccia, e comunque la corona vaginale non smette di esistere né scompare dopo la prima penetrazione. Diversi studi hanno anche dimostrato che le lesioni alla corona vaginale, che per esempio possono essere causate anche da un parto, guariscono rapidamente, senza lasciare traccia. La prima volta che viene sollecitata per permettere a un pene o a qualsiasi altra cosa di entrare, la corona vaginale si dilata insieme al resto della vagina: per alcune va tutto liscio, per altre vi può essere un leggero sanguinamento, ma non è la norma. E questo può esser dovuto all’approccio non molto delicato del partner, alla rigidità della corona vaginale, alla sua forma o alla vascolarizzazione del tessuto. In alcuni casi il sanguinamento può anche presentarsi in rapporti successivi, ad esempio se le dimensioni di ciò che viene introdotto sono molto maggiori rispetto alla volta precedente, se il rapporto è particolarmente energico, se la vagina è secca o se non si sono rispettati i tempi preliminari della lubrificazione. Nemmeno il dolore durante il primo rapporto sessuale è la norma, e comunque di solito la fonte principale del dolore non ha a che fare con la corona vaginale. Il dolore che si può provare durante il primo rapporto penetrativo può essere legato alla poca lubrificazione (causa di lesioni che creano un lieve bruciore) o alla contrazione dei muscoli vaginali (per esempio per l’agitazione). Eppure, nonostante tutte queste informazioni, ancora persiste l’idea della corona vaginale come sigillo di castità. Perché? Forse perché, se decidessimo che la corona vaginale non è la garante della verginità, dovremmo far spazio ad altre narrative che cambierebbero il concetto di sessualità fondata sul modello eterosessuale e penetrativo?! In quasi tutte le culture la verginità è un valore intoccabile e si utilizza l’espressione “perdita della verginità”, che però è negativa e stigmatizzante perché implica che, una volta persa, il valore della donna non sia più lo stesso, come se passasse da una condizione di purezza e ingenuità ad una di malizia e corruzione. E questo passaggio avviene soltanto attraverso la penetrazione. Ma cosa succede con le donne omossessuali che non hanno un rapporto di penetrazione che coinvolga il pene maschile? Le dobbiamo considerare vergini?! E se una donna pratica solo sesso anale, la consideriamo comunque vergine perché non vi è stata penetrazione vaginale?! Questo concetto lo ha espresso bene la comica australiana Hannah Gadsby: nel 2017 ha presentato lo spettacolo “Nanette”, che si concentra in particolar modo sulle tematiche del sessismo e dell’omosessualità, sviscerate attraverso riferimenti al mondo dell’arte e al suo stesso vissuto personale. In questo spettacolo si presenta così: “Ci sono solo due opzioni per una bambina quando cresce: vergine o troia. E io non entro perfettamente in nessuna delle due categorie. Vergine o troia? Cioè, a livello tecnico, direi vergine.” Queste idee che caratterizzano la nostra società ci parlano di assetto etero-normativo, ed automaticamente lasciano fuori tutto ciò che devia dalla norma eterosessuale, ignorandolo o addirittura perseguendolo. Sembra che solo il pene maschile possa rendere una donna sessualmente attiva, ma il sesso ha tante forme diverse e può essere vissuto in molti modi. E la verginità femminile non può essere una questione anatomica, né prettamente fisica: è una costruzione sociale, incorporata in sistemi religiosi, legali e culturali; tiene in considerazione tutta una serie di fattori psicologici ed emozionali legati a ciò che abbiamo visto intorno a noi e a ciò che ci hanno insegnato. Quindi per l’ennesima volta ribadisco il concetto che è fondamentale essere informate, divulgare la conoscenza e porre le basi per una nuova società, non più basata su idee errate ed obsolete, ma aperta al cambiamento e all’accoglienza della diversità! Ahava, Francesca Zangrandi PS. Il prossimo appuntamento di questa rubrica sarà il primo lunedì di aprile, ma se nel frattempo vuoi rimanere aggiornata sui vari articoli che pubblico sul blog puoi iscriverti alla newsletter sul sito www.quintadimensione.net, mettere “Mi piace” alla pagina Facebook Quinta Dimensione – Francesca Zangrandi, seguirmi su Instagram https://www.instagram.com/francesca_quintadimensione/, iscriverti al canale YouTube Francesca Quinta Dimensione e/o al canale Telegram https://t.me/quintadimensionefrancesca. E se invece credi che questo articolo possa interessare a qualcuno di tua conoscenza, puoi condividerlo. Grazie di cuore! 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