Rubrica “Lunedì al femminile”: CON DOLORE PARTORIRAI

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Eccoci giunte al cinquantaduesimo appuntamento della rubrica “Lunedì al femminile”, che esce ogni primo lunedì del mese.
Da alcuni mesi parliamo di varie cose che accadono attorno al parto, ma oggi affrontiamo l’argomento dolore, visto che spesso viene automaticamente associato al parto.

Per ogni donna il parto è un rito di passaggio che marca la transizione irreversibile dalla condizione di figlia a quella di madre: in poche ore la donna si trasforma radicalmente e diventa madre, pronta a dedicarsi interamente e altruisticamente al nuovo arrivato, che è completamente dipendente da lei.  E come avevamo già detto quando abbiamo parlato del menarca, il passaggio da una tappa all’altra corrisponde al lasciare uno status quo per entrare in una fase successiva, quindi non sempre questi passaggi risultano essere facile.
Ma sul parto sembra incombere la spada di Damocle. Infatti, sembra che il parto sia sinonimo di dolore. Ma come se fosse una punizione.

Infatti, in un noto passo della Genesi in cui Dio si rivolge a Adamo ed Eva dopo che hanno assaggiato il frutto proibito, leggiamo:
“Moltiplicherò
i tuoi dolori e le tue gravidanze,
con dolore partorirai figli.”
Questa è la traduzione canonica del passo, quindi è passato, e continua a passare, il messaggio che la divinità ha condannato la prima donna a partorire con dolore, e in qualche modo nella memoria delle nostre cellule perpetua questa credenza e la facciamo nostra.

E sì, il parto può essere doloroso, ma il dolore varia da donna a donna e di parto in parto. Solitamente non è insopportabile, come si vorrebbe a volte far credere: è alternato a scariche di endorfine, ormoni del piacere, che regalano pause riposanti tra una contrazione e l’altra, a volte anche al punto da addormentarsi, e che saranno presenti, anche se sempre più brevi, fino al momento della nascita; è associato ad un evento positivo, la nascita del figlio, e a processo finito il dolore cessa ed è rimosso dalla memoria, mentre resta il ricordo positivo dell’evento, altrimenti le donne non partorirebbero nuovamente e ci saremmo già estinti.
Eppure, in una parte remota di noi incombono le parole del passo biblico, quella punizione della divinità che sembra condannarci.

Ma se ti dicessi che in realtà quel passo (come tanti altri, del resto) è stato tradotto male?!
Dio dice alla donna che partorirà con sforzo, o fatica, o affanno. E lo sta semplicemente constatando, non è una condanna. Infatti, è questo che significa la parola ebraica “ètzev”. Erri De Luca ha sritto: «La parola “ètzev” ricorre sei volte nella scrittura sacra, quattro volte nel libro Mishlé/Proverbi, (5,10; 10,22; 14,23; 15,1), una volta nei Salmi (127,2) e una volta nel giardino. I riferimenti delle sei volte servono a poter verificare quello che sto per dire: cinque volte i traduttori vari rendono “ètzev” con sforzo, o fatica, o affanno. Con deliberata intenzione le traduzioni maschili qui inventano una volontà divina di punire la donna, di caricarle sopra il senso di colpa di un peccato originale da scontare con i dolori di parto.»

Sembrerebbe quindi esserci la precisa intenzione dei traduttori di creare una punizione divina inesistente, additando la donna come vera colpevole del peccato originale e, in quanto tale, meritevole di una punizione.
E quanto queste parole sono insite in noi?
Da quanti millenni influiscono sulle nostre credenze?
Sulla nostra mentalità?
Quanti tutt’oggi ritengono il momento della nascita di un figlio come “necessariamente” doloroso?
Quanto la sofferenza connessa al parto (ma anche quella legata all’apparato riproduttivo in generale) viene considerata una norma?
Quante donne pensano ancora che questo tipo di sofferenze siano connaturate al loro essere?

Prima ho detto che sul parto sembra incombere la spada di Damocle. Nel mito Damocle, appena scopre la spada che pende pericolosamente sulla sua testa, perde immediatamente il gusto per il cibo che sta mangiando e la curiosità per tutto ciò che gli è intorno; non desidera più essere nei panni di Dionigi, ma vuole tornare nei suoi panni di umile cortigiano. Quindi in qualche modo la spada di Damocle ci ricorda l’insicurezza legata al ruolo di chi è potente e vive nel costante timore di essere defraudato da qualche altro, o che qualcuno possa sovvertire lo stato di cose in cui si trova.
Sentirsi condannata e colpevole non toglie forse potere alla donna?
Essere convinta che sarà sicuramente un’esperienza dolorosa non la fa vivere nella paura?
E quando una persona vive nella paura, si può manipolare tranquillamente.

Il parto è un rito di passaggio, sia per la donna, che da figlia diventa madre, sia per il nascituro, che da feto diventa neonato. Non a caso, dopo l’evento diciamo che la donna ha partorito, parola che racchiude al suo interno la parola “parto” e la stessa parola “rito”: come se il parto fosse il risultato di un rituale.
E in effetti in questo passaggio la donna ha la possibilità di entrare in contatto con una parte profonda e selvaggia di sé, di contattare il suo potere e la sua forza. Il corpo stesso della donna diventa canale per la forza vitale, se non la si ostacola; e in nessun’altra occasione si vede così palesemente la saggezza della Natura in azione, se si è disposti a permetterle di fare ciò che sa fare meglio. Ma se la donna diviene consapevole di questo, non è più manipolabile.

Ho spesso detto che se volete sapere dove si trova il vero potere delle donne, guardate a quelle esperienze primordiali che ci hanno insegnato a temere. Non è un caso che siano proprio queste le esperienze da cui la cultura ci ha insegnato ad allontanarci il più possibile, trattandole spesso come casi clinici, tanto da non averne quasi più coscienza. Il travaglio e il parto sono tra le esperienze che collegano le donne al loro potere femminile, insieme al ciclo mestruale e alla menopausa. – Christiane Northrup

Se in più rendiamo il parto un evento medicalizzato, dove non si permette alla donna di contattare e seguire le sue intuizioni, di muoversi liberamente, di essere padrona del suo corpo e di creare una danza insieme al suo bambino (perché ricordiamoci che è un’esperienza che si fa in due, ognuno dei quali è protagonista del momento), ovviamente la situazione peggiora.
Se togliamo alla donna in travaglio i suoi ritmi, se la obblighiamo a stare ferma, se le facciamo credere che il suo sentire e le sue intuizioni non sono affidabili, se la trattiamo come fosse malata anziché farla sentire padrona di sé stessa e del suo corpo, faremo sì che si innalzino delle barriere, sia fisiche che psichiche, che amplificheranno ancora di più il dolore

A un livello profondo, tutti noi proviamo un timore reverenziale nei confronti delle donne incinte e del loro potere. Ma invece di accentuare il potere delle donne, la nostra cultura, nella classica inversione patriarcale, accentua la paura di quel potere. Le donne incinte sono più permeabili alle emozioni e più connesse alla loro intuizione del solito, e quindi più vulnerabili. Esse recepiscono tutte le paure sociali e collettive che provocano. – Christiane Northrup

Il processo del parto è una delle più grandi conquiste della Natura. In tutta la sua saggezza, la Natura lo ha progettato in modo che l’esperienza ci insegni quali sono le nostre risorse interiori e come accedervi. Quindi è importante tornare con l’attenzione a noi stesse e al nostro corpo, mettendo in secondo piano i consigli e le parole degli altri, riconoscendo il grande potere insito nella saggezza del nostro corpo. Francesca Zangrandi

PS. Il prossimo appuntamento di questa rubrica sarà il primo lunedì di maggio, ma se nel frattempo vuoi rimanere aggiornata sui vari articoli che pubblico sul blog puoi iscriverti alla newsletter, mettere “Mi piace” alla pagina Facebook, seguirmi su Instagram, iscriverti al canale YouTube e/o al canale Telegram. E se invece credi che questo articolo possa interessare a qualcuno di tua conoscenza, puoi condividerlo. Grazie di cuore!

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